LE RIVELAZIONI DEL PENTITO. «Erano i politici a chiedere agli imprenditori se avessero il benestare del Clan»

Panaro Iovine

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Non deve essere preso per oro colato. Non bisogna accettarlo, prima dei dovuti riscontri, come verità assoluta.  E’ un approccio scontato, eppure, considerata la delicatezza degli argomenti trattati, è giusto ripeterlo.

Tuttavia il racconto di un pentito (considerato attendibile da esperti magistrati antimafia e da un gip che, anche in base a quella narrazioni, decide di arrestare cautelarmente delle persone),  al di là della sua valenza processuale, che sarà attestata, caso per caso, da altri giudici, rappresenta un’esperienza che non può essere ignorata. Soprattutto se a riportarla non è un personaggio marginale dell’organizzazione mafiosa, ma un ex affiliato che sedeva ai tavoli importanti del clan.

E’ stato Antonio Iovine ad aprire le danze, nel corso di un'udienza del processo Fabozzi, su una camorra che aveva totalmente cambiato pelle, divenendo capace di intrufolarsi nelle zone grigie tra politica, imprenditoria e malaffare.

Quelle stesse informazioni, in linea principale, sono state confermate da un altro pezzo grosso del clan, Nicola Panaro.

“Mi viene chiesto di distinguere le categorie dell’imprenditore vittima e dell’imprenditore amico. Rispondo che il primo, - ha dichiarato il collaboratore alla Dda, nel marzo 2015, - era quello che si limitava a subire l’estorsione  in relazione ad appalti di cui noi avevamo contezza, talvolta anche su iniziativa dello stesso imprenditore il quale voleva evitare di avere qualsivoglia problema. […] In cambio della tangente noi garantivamo all'imprenditore che pagava sicurezza, nel senso che lo preservavamo da attentati nostri o di altri. L’imprenditore amico, invece, - ha specificato il pentito, - era quello che si avvaleva della capacità di intimidazione del clan, nonché delle sue conoscenze. Talvolta, specie per quanto riguarda il rapporto con gli amministratori pubblici, capitava che l’imprenditore avesse dei collegamenti che il sodalizio non aveva. In ogni caso, peraltro, egli si poneva nei confronti dei suoi interlocutori come unica soluzione possibile, nel senso che il pubblico amministratore che doveva aggiudicare l’appalto sapeva, una volta che egli si fosse presentato credibilmente come emanazione di una realtà mafiosa, che in alternativa non avrebbe potuto aggiudicarlo a nessun altro. E tanto questo è vero che, in taluni caso, quando degli imprenditori si presentavano a cercare interlocuzione con i pubblici amministrati, senza avanzare credenziali criminali, erano proprio i politici a chiedere garanzie sul fatto che essi avessero il benestare dell’associazione, dato che, senza di questo, i lavori non avrebbero potuto svolgersi.”

Panaro, nel corso dei suoi interrogatori, non si è limitato a disquisire sui massimi sistemi, ma ha parlato anche di cifre, di denaro che “il clan percepiva in cambio del sostegno attribuito all’imprenditore colluso”

“Talvolta, - ha spiegato l'ex affiliato, - si trattava di una percentuale sull’importo dei lavori che peraltro, nel caso in esame, era superiore all'ordinario 3% che si aggirava normalmente sul 10% (che si sommava all’ulterire 10% che spettava al politico, da cui si prelevava un 3% che andava al clan dei Csalesi nel suo complesso, ovvero nella cassa finalizzata al pagamento degli stipendi.”

“In altre ipotesi, - ed è quella più inquietante, - si instaurava con l’imprenditore un vero e proprio rapporto societario, nel senso che si dividevano i profitti e spesso solo in teoria gli investimenti”.

Insomma, dei politici che si preoccupavano di chiedere agli imprenditori coperture criminali, degli impresari che non subivano la camorra, un clan che diventava socio di aziende abili nell'ottenere commesse pubbliche. Questo il quadro dipinto da Nicola Panaro.

Giuseppe Tallino