GIOVANNI IZZO, IL FOTOGRAFO DEGLI INVISIBILI

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Giovanni Izzo, notoriamente schivo e restio a parlare, si racconta nella seguente intervista (che si riporta integralmente) di Patience Montefusco rilasciata per il Magazine 'INFORMAREonline' diretto da Tommaso Morlando:

GIOVANNI IZZO, IL FOTOGRAFO DEGLI INVISIBILI

Tutti hanno consapevolezza che la fotografia sia uno strumento prezioso capace di immortalare attimi e momenti preziosi della nostra vita. Pochi sanno, tuttavia, che fotografare la realtà che ci circonda è anche un mezzo utilissimo per rendere visibile ciò che non è palese. Di questo è testimone Giovanni Izzo, fotografo professionista che da anni si occupa di  immigrazione, mafia nigeriana, prostituzione e droga.

I suoi reportages fotografici, con un solo scatto, denunciano, raccontano, mostrano questa realtà visibile a tutti, ma di cui nessuno ama parlare se non quando si può urlare allo scandalo, alla vergogna. Da ormai vent’anni affronta temi di particolare rilevanza sociale attraverso degli scatti fotografici unici. Lo abbiamo intervistato per conoscere meglio alcuni aspetti critici del territorio di Castel Volturno, trattando rilevanti temi di attualità sociale.

Giovanni Izzo dà risalto a tutti coloro che, per la società in cui viviamo, occupano il gradino più basso: i cosiddetti INVISIBILI. Più nel dettaglio si fa riferimento a prostitute ed immigrati, l’ultima ruota del carro di un territorio già abbastanza devastato di suo. Giovanni non si è mai lasciato vincere dalle  pressioni e dalle minacce di chi, in modo ostinato, non vuol far emergere il lato oscuro di una prassi ormai consolidata.

I suoi scatti fotografano la realtà della Domitiana, teatro triste e spettacolo indegno di immagini che si ripetono da anni e sono sotto gli occhi di tutti, ma che grazie ai suoi occhi assumono un significato che a volte è pura poesia, a volte è urlo di disperazione, a volte ribellione anche in chi guarda. Di fronte all’indifferenza di tanti, Giovanni ha deciso di raccontare la sua visione tutt’altro che indifferente, e racconta piuttosto una passione che, parafrasando un noto successo editoriale, ha mille sfumature dal nero al rosso, ma sicuramente non il grigio indifferente.

Tra le tante foto della sua galleria colpisce l’immagine di una prostituta che, in un momento di insolita tranquillità, rivolge il suo sguardo alla Madonna, quasi a volerle rivolgere un grido di aiuto. Partiamo proprio da questa immagine così rappresentativa.

Cosa l’ ha spinta a voler immortalare questo momento?

«Passavo spesso da quelle parti, intorno Pescopagano. Quando ho scattato questa foto stavo andando a Formia. Ogni volta che passavo di lì, quella ragazzina era sempre rivolta verso la Domitiana, ma quel giorno era girata di spalle e mi dava l’impressione che stesse dialogando con la Madonna. Ricordo che feci una veloce inversione di marcia per fermare quel momento che aspettavo da un anno. La fotografia mostra che dallo specchietto retrovisore si intravede un’altra ragazzina che si allontana per non farsi fotografare».

Che significato assume per lei?

«Non mi piace spiegare o raccontare le foto, perché farlo vuol dire che lo scatto non è buono, non sei riuscito nel racconto. Lo scatto deve essere mirato, unico. Una fotografia corrisponde a trenta o quaranta pagine o addirittura ad un intero libro. E’ molto più veloce della scrittura, è un attimo. Fotografare significa sottolineare le cose conosciute da tutti, che tutti noi vediamo o non vogliamo vedere, ma puntualmente sono ignorate da tanti. Forse è questo il significato di uno  “scatto d’arte”.

La prostituzione mi piace raccontarla con grandissimo rispetto e dignità per la persona. La Domitiana la vaglio in profondità, non mi limito a “guardarla”, la osservo. Lavoro con una macchina fotografica molto discreta. Uso quasi sempre un obiettivo  “grandangolare” per poter stare nella scena e raccontarla da dentro, per far comprendere al meglio cosa si provi a vivere quella storia. Anche una guerra la racconterei con il grandangolare, perché stai nella scena, fai parte della scena, racconti ciò che accade in quell’attimo.

Sono entrato nelle case delle prostitute, ho avuto la loro fiducia dopo anni, mi sono preso cura delle loro esigenze, anche perché sono socio di una piccola ONG che da pochi mesi opera sulla Domitiana: si chiama Operatori Sanitari nel Mondo e si occupa proprio degli ultimi. Difficilmente ci si fida di un bianco, perché i bianchi per loro sono solo sinonimo di bancomat, esattamente come lo sono per la mafia nigeriana. Negli anni ho raccolto tantissime loro storie; mi hanno raccontato le loro odissee dal paese di origine.

Un esodo che dalla Nigeria attraversando deserti arriva fino alla Libia, per poi imbarcarsi verso l’Italia. Arrivare a Lampedusa significa essere salvi perché non tutti ce la fanno e, una volta arrivati lì, raggiungere la terra promessa che per molti è Castel Volturno. Molte mi hanno raccontato del viaggio nel deserto, il più terribile, quello in cui solo chi è forte si salva. Mi hanno raccontato di centinaia di cadaveri che hanno trovato lunga la tratta nel deserto. Quindi arrivare qui per loro è quasi un sollievo, ma un sollievo solo provvisorio perché non hanno idea di cosa le aspetti.

Sono costrette a prostituirsi per pagare il debito contratto in Africa. Dietro questi viaggi della disperazione ci sono i loro stessi connazionali che si rivelano aguzzini di tutto, spesso sono proprio i genitori che le vendono. Dalle loro confidenze si sa che sono le famiglie a venderle a parenti, a compaesani, i cosiddetti “zii” che si trovano già qui in Italia. Alle ragazze viene detto che il loro è un piccolo debito che si potrà estinguere in breve, facendo la  parrucchiera, la cameriera, la badante.

Le ragazze credono di pagare in Naira, la moneta nigeriana che è meno di un millesimo dell’euro (Un naira vale 0,0021 euro). Consegnate alle loro madames assegnatarie, scoprono l’inganno, e il loro debito da pagare è di migliaia di euro. Un altro aspetto da prendere in considerazione è che anche se  noi bianchi ridiamo dei loro riti voodoo, per loro è una cosa seria, ci credono e li temono a tal punto che sono terrorizzate dall’idea di sciogliere il patto per le conseguenze che potrebbero subire.

Una volta arrivate qui  il rito viene ripetuto. Il rito è sacro e va rispettato, offre protezione alle ragazze e ai loro familiari in Africa. Diversamente è causa di disgrazie per loro stesse e la famiglia. Dalle loro confidenze, ho saputo che nei loro paesi di origine sono stati uccisi alcuni familiari delle ragazze che non avevano rispettato i patti».

Di fronte al grido di dolore di questa donna e di tante come lei, quale appello sente di fare alle Istituzioni e ai cittadini del nostro territorio?

«Sono certo che qualcosa potrebbe cambiare se ognuno di noi facesse la sua parte denunciando. Ormai l’uomo ha perso la sua umanità: i soldi sono la priorità della vita. Purtroppo ci siamo incattiviti».

Cosa la spinge, nonostante l’indifferenza di molti, a non abbandonare questo progetto di denuncia così importante?

«Mi piace raschiare sempre il fondo. Quasi tutti i giorni percorro la domitiana da Ischitella a Pescopagano, passando per Destra Volturno. Forse sono l’unico bianco ad essere entrato in più di una Connection House per capire cosa accadesse. Ho anche avuto modo di fare qualche scatto per raccontare la “vita” al suo interno. I miei scatti sono stati spesso oggetto di studio per allestire scene di set cinematografici.

Anche il vestiario utilizzato dalle prostitute è importante: tacchi altissimi, sempre leggins colorati e vistosi per farsi riconoscere dal cliente che si è affezionato a lei. Quando sono in strada non devono avere nulla in mano, solo le chiavi dell’appartamento dove porteranno il cliente ed un telefonino economico per essere rintracciate dal cliente. Anche le parrucche che indossano sono quasi sempre le stesse, poi vengono cambiate dopo un certo periodo di tempo».

Ritiene che ci sia ancora speranza per il nostro territorio oppure tutto è perduto?

«Ho tolto dalla strada diverse ragazze affidandole a centri di accoglienza. Il rischio c’è, è grande ed è in cantiere, ma la speranza è che  ognuno di noi faccia la propria parte. Mi auguro che un giorno, quanto prima, la nostra Campania Felix così chiamata dai romani per la sua ricchezza e bellezza, torni a splendere».